Hanno detto: "senza dati, sei solo un'altra persona con un'opinione". Era vero. Quando i dati erano pochi e difficili da raccogliere. Avere accesso ai dati significava appartenere a un'élite. Oggi è l'opposto: i dati sono ovunque. Gratis, accessibili, apparentemente democratici. Ma non per questo utili.
Nell'epoca dell'abbondanza delle informazioni, il vero rischio è perdersi. Chi lavora con i dati sa che il problema non è più raccoglierli, ma filtrarli. Capire cosa ignorare. Isolare i segnali nel rumore. Per farlo serve un filtro. Un pensiero. Un'opinione. La vera competenza oggi non è avere i dati, ma saperli leggere.
E per "dato" non intendo solo una metrica o un numero. Il dato è tutto ciò che viene prodotto senza una direzione: un contenuto generato, un'analisi automatica, etc. Il mondo oggi è pieno di output, ma affamato di senso.
Il compito non è sommare, ma interpretare. Decidere cosa ha valore e cosa no. E non è un compito neutro. Interpretare è un atto creativo, culturale, identitario. Serve un'estetica, una visione, uno stile.
Non è una riflessione teorica. Secondo il report High Performance AI della MIT Technology Review, il 74% dei manager afferma che la vera sfida non è l'accesso ai dati, ma la loro trasformazione in valore. L’abbondanza senza discernimento crea paralisi, non progresso.
Nel mondo della comunicazione e del marketing questo si vede con ancora più forza. Oggi i contenuti li produce l'intelligenza artificiale: articoli, immagini, headline, persino loghi. L'automazione ha cambiato le regole del gioco. Non serve più "creare" nel senso tradizionale.
Ma allora che ruolo resta alle persone? A chi lavora nella comunicazione, nel design, nella strategia? Uno nuovo. E più importante.
Il futuro non è dei creator. È dei curator. Di chi sa selezionare, ordinare, rifinire. Di chi trasforma contenuti indistinti in messaggi coerenti, riconoscibili, autentici.
Anche qui, i dati lo confermano. Le aziende che performano meglio nell'adozione dell'AI non si limitano a produrre di più: investono nella cultura del dato, nella capacità critica delle persone, nella formazione di profili ibridi che fungano da ponte tra tecnologia e decisione. Figure che non generano, ma orchestrano. Non fanno rumore: indicano la direzione.
Ogni volta che una nuova tecnologia abilitante ha fatto la sua comparsa – dalla stampa a internet, fino all’AI – si è gridato alla fine degli intermediari. Ma più cresce l’accesso, più serve orientamento. In questo contesto, il valore del professionista non è nell'esecuzione rapida, ma nella profondità culturale. Nella sua capacità di leggere il contesto, riconoscere i pattern, individuare le priorità. Servono competenze. Esperienza. Un punto di vista. Una visione critica, non automatica. Non è solo questione di tool. È questione di cultura.
Un tempo la comunicazione era un flusso che partiva dalla mente e finiva sul foglio. Oggi il flusso parte dalla macchina. E finisce nella mente di chi sa leggere, interpretare, scegliere. Solo dopo dovrebbe prendere vita in una forma concreta di risultato.
Le aziende che vogliono distinguersi devono capirlo. Non basta produrre contenuti. Serve senso. Serve intenzione. Serve una visione che attraversi il dato, lo ripulisca, lo modelli. E gli dia voce.
In un mondo che parla troppo, chi sa cosa dire e come dirlo ha un vantaggio enorme. E chi ha il coraggio di farlo con coerenza, ogni giorno, costruisce valore. Anche (e soprattutto) nell'era dell'intelligenza artificiale.
Perché la vera intelligenza non è quella artificiale. È quella di chi sa comprendere e orientare.
Articolo pubblicato su Ticino Management maggio 2025 - Eureka, Digital
