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Florian Anderhub30 nov 20177 min read

Carlotta Zarattini

La passione per la fotografia le ha insegnato che l’arte, in ogni sua forma, deve servire a porsi delle domande: il dubbio, l’incertezza e l’incognita stimolano la curiosità, spingono al dialogo e alla ricerca di nuovi punti di vista. Con questi obiettivi chiari nella testa, a partire dal 2013 Carlotta ha lanciato una serie di iniziative accomunate da un nuovo spirito di scoperta e condivisione. Che sia l’inizio di una nuova scena culturale per la cara, vecchia Lugano?

Carlotta, sei molto giovane ma hai un bagaglio di esperienze a dir poco invidiabile!

Appena maggiorenne ho lasciato Lugano, dove ho trascorso l’infanzia, perché sentivo la necessità di seguire la mia strada e cercare nuove fonti di crescita; gli anni trascorsi via sono stati determinanti per un mio sviluppo professionale e personale. Mi sono trasferita a Bologna per studiare Storia e letteratura italiana, una delle mie prime passioni; poi ho preso un aereo per gli Stati Uniti, e la rassicurante cultura del Bel Paese ha lasciato spazio a nuovi approcci ed esperienze vorticose. Ho studiato fotogiornalismo all’International Center of Photography di New York e ho iniziato a farmi conoscere come fotografa. Ho lavorato con molti professionisti del settore e realizzato reportage in collaborazione con note riviste (New York Times, The Wall Street Journal, Internazionale e altre), finché non mi sono resa conto che la fotografia del reale non riusciva a darmi quello che cercavo. La verità è che oggi tutti possiedono i mezzi per raccontare fotograficamente un evento in cui si trovano coinvolti, e spesso il loro punto di vista è più veritiero rispetto a quello di un fotoreporter... Così ho deciso di portare la mia fotografia su un altro livello, più personale e introspettivo.

Cosa ti ha fatto cambiare idea?

Ero stata a Phnom Penh, in Cambogia, per documentare lo stato di degrado del White Building, un edificio costruito negli anni Sessanta durante il boom della popolazione e abbandonato durante il regime di Khmer Rouge nel 1975, ora occupato da giovani artisti e famiglie in miseria, tossicodipendenti e prostitute. Per catturare il senso della vita nel White Building, mi ero immersa nel quotidiano di quella comunità, che mi aveva completamente assorbita. Dopo essere stata testimone di una realtà così complessa, metafora perfetta del Paese e delle sue contraddizioni, ho capito che non sarei tornata facilmente al fotogiornalismo nudo e crudo. Ho lasciato New York e mi sono trasferita a Milano, decisa a scoprire cos’altro avrei potuto raccontare attraverso la fotografia. All’Accademia di Belle Arti di Brera ho imparato a utilizzare il mezzo fotografico come strumento per pormi delle domande: amo mettere in discussione me e ciò che mi circonda, e l’immagine artistica – la cultura in generale – ha la straordinaria capacità di veicolare riflessioni e creare suggestioni, oltrepassando la pura rappresentazione fine solo a se stessa.

 

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Come hai sviluppato concretamente questo pensiero sulla cultura?

Il passo successivo è stato tornare a Lugano; non avevo un’idea precisa e non sapevo per quanto sarei rimasta… poi è arrivato il progetto di Spazio 1929, e senza che me ne rendessi conto sono stata trascinata in un vortice di idee che non si è ancora fermato. Era il 2013 e Banca Zarattini & Co. aveva traslocato i suoi uffici, lasciando libero un edificio storico in centro a Lugano. Abbiamo subito pensato di valorizzarlo per dare vita a qualcosa di originale e, poiché sono la più “estrosa” della famiglia, sono stata immediatamente assoldata per il lavoro! Mi sono buttata in questa nuova avventura insieme ad altri artisti che, come me, avevano la sensazione che Lugano avesse bisogno di una rinfrescata culturale; l’unione delle nostre visioni ha dato vita a un nuovo concetto di spazio creativo che vuole incoraggiare artisti e comunicatori a condividere le proprie idee e a collaborare alla realizzazione di progetti innovativi. Il coworking non è solo una soluzione economica per chi non può permettersi uno spazio tutto suo, tutt’altro: significa apertura mentale, cooperazione, scambio, ricerca continua… e il risultato non può che essere eccellente! Per questo abbiamo deciso di definire lo spazio officina creativa: il termine rende perfettamente il senso della collaborazione e del flusso di idee che vorremmo caratterizzassero lo Spazio 1929.

E quello è stato il punto di partenza di altre iniziative che seguono questo pensiero…

Esatto. Pochi mesi dopo l’apertura dello Spazio 1929 ci siamo imbarcati in un’altra impresa davvero entusiasmante. Ancora una volta, fonte dell’ispirazione è stato un edificio in disuso: la Villa Ambrosetti di Gentilino. Ormai in condizioni pessime, aspettava di essere abbattuta per lasciare spazio a nuove costruzioni, ma abbiamo voluto farla brillare un’ultima volta. In due mesi l’abbiamo rimessa a nuovo, e 23 artisti hanno contribuito a decorarne le mura con opere che ne raccontassero il passato e celebrassero la memoria. Per un weekend la villa è stata aperta al pubblico e popolata da artisti e musicisti; persino il famoso jazzista Franco Ambrosetti ha suonato nella casa che era stata di sua nonna e, fuori da ogni aspettativa, L’arte della Memoria ha avuto un enorme successo. In quei due mesi abbiamo vissuto in una sorta di utopia del passato, molte persone si sono sentite coinvolte dal nostro progetto e ci hanno offerto il loro supporto senza chiedere nulla in cambio. Nonostante sia stata una vera e propria corsa contro il tempo, ne sono uscita arricchita, come artista e soprattutto come persona. Cerco proprio questo negli eventi e nei progetti in cui mi lancio: voglio che siano fonte di arricchimento per me in primis, e per gli altri di conseguenza. Quello di cui sono certa è che la vita nasconde tante cose che possono essere imparate e scoperte solo accettandole, mettendosi in discussione e soprattutto confrontandosi con gli altri.

 

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Il tuo nuovo progetto, Turba, nasce da questo desiderio di stimolare e provocare?

In parte, sì. Il Turba è un circolo culturale, un luogo di incontro e di scoperta. Chi diventa socio, entra a far parte di un microcosmo abitato da persone eterogenee, accomunate unicamente dalla voglia di lasciarsi sorprendere e sconcertare. Io stessa tendo a lasciare che questo luogo mi stupisca e mi suggerisca ogni volta nuovi potenziali sviluppi: anche per noi che lo gestiamo, il circolo è un vero e proprio laboratorio in cui sperimentare e cercare sinergie interessanti tra arte, musica e cibo. La scoperta è senza dubbio il fil rouge dell’esperienza “turbata”: chi passa da qui non si aspetta di tornare a casa immutato; attraverso le serate che organizziamo e gli artisti che passano di qua vogliamo suscitare curiosità, invitare al dialogo e allo scambio di opinioni, e ci auguriamo di dare almeno una leggera scossa a chi partecipa ai nostri eventi! La speranza, poi, è che l’entusiamo generatosi nel corso delle serate abbia una risonanza anche fuori da questo piccolo microcosmo… e perché no, anche fuori da Lugano. Il nostro obiettivo principale è stimolare delle domande più che delle risposte, provocare delle reazioni dentro di noi, educare. Il termine educare deriva dal latino educere, che significa “portar fuori”: chi decide di condividere con noi quest’avventura, accetta di essere trascinato in un universo fuori dall’ordinario, dove l’incognita è necessariamente parte dell’equazione; solo così potrà uscirne arricchito! 

 

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Non è un obiettivo facile quello che ti sei posta.

Non è semplice se l’intenzione è quella di imporre un tuo pensiero a qualcun altro, ma non è assolutamente il mio scopo. Non sono detentrice della verità, non so rispondere alla maggior parte delle domande che mi pongo e di conseguenza sono la prima a imparare in queste occasioni. Il Turba, così come gli eventi organizzati da Spazio 1929, costituiscono per me un viaggio di cui non conosco la meta, un racconto di cui non immagino il finale. Voglio coinvolgere il maggior numero di persone possibili nella realizzazione di una realtà culturale e di un’atmosfera che siano fonte costante di ispirazione e crescita. E non conoscere il risultato finale rende tutto solamente più interessante! La vita mi ha insegnato che tante volte è necessario lasciare le cose libere di essere o di non essere; bisogna vivere le occasioni e cogliere il potenziale positivo che si cela dietro a ogni avvenimento.

 


Wanderful Take

Abbraccia l’imprevisto. La vita è un viaggio di sola andata; prevedi qualche deviazione, apriti agli incontri casuali e non aver paura di perderti! L’esperienza di Carlotta insegna che ovunque sia l’occasione di arricchimento, è esattamente là che dovremmo dirigerci. Se saremo fortunati, sapremo cogliere le infinite opportunità di questo viaggio e utilizzare quanto imparato nella creazione di qualcosa di... Wanderful.

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Florian Anderhub

Dopo aver conseguito un Master in comunicazione all’Università della Svizzera Italiana, dal 2006 Florian Anderhub guida Ander Group. L’estrazione multiculturale, i 21 anni da imprenditore e la passione per l’innovazione tecnologica sono una garanzia di crescita per i suoi clienti.

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